Lo stato delle cose
Stefania Canel
Un’esperienza comune, credo, trovarsi in un ingorgo di pensieri, smarriti di fronte all’incapacità di leggere il presente e di vedere nel futuro. Eppure è proprio in questi momenti che si apre un’inaspettata disponibilità a cogliere altri intrecci, a decifrare, per caso o per volontà, un suggerimento sulla nostra presenza in questo mondo.
Così mi ricordo nello studio di Walter Davanzo, di fronte alle sue ultime grandi tele. C’è stato subito un contatto profondo, un dialogo aperto con un’arte che sollecita nuove suggestioni di conoscenza e di coscienza.
Ho visto i suoi lavori muoversi principalmente in due direzioni. La prima, verso nascoste e perdute vite, la seconda sulla via del recupero-riutilizzo dei materiali e sulla messa in gioco del loro stesso uso.
Ma non sono strade parallele senza incontri: forse il solco tracciato è lo stesso. Lontano dalla superficialità, si è fatto sempre più profondo, sperimentando modalità molteplici per esprimere una visione aperta del mondo. Diventa allora difficile stabilire se sia il recupero di frammenti abbandonati dall’uomo a costruire un’altra realtà, con vita autonoma, o se piuttosto sia l’essenza di questa altra relatà che si dà a noi attraverso bagliori, buchi, strappi, residui della vita precedente. Come a dire che il procedere di Davanzo verso le due direzioni è comunque sorretto da un unico pensiero, un persiero ramificato che pone e si pone domande, non fa scelte uniche e univoche.
Non si tratta quindi di distinguere nei suoi lavori l’appartenenza all’una o ali’ altra riflessione, piuttosto di contaminarsi e portarne addosso l’urto più violento in una direzione, quella di più forte impatto.
Il grande acrilico rosso esprime più di ogni altro una straordinazia presa di coscienza del reale e insieme il distacco di chi non si accontenta di ciò che appare. Non c’è rassegnazione di fronte alla superficialità delle cose.
Un cuore più intimo esiste e sfonda al centro della tela, come a dire che potrebbe accadere in molti altri luoghi possibili, lì sotto dove tutto è coperto da fasci fitti di colore sovrapposto. É il pulsare di un nocciolo fluido-c’è una luce diversa in quel rosso nel centro – che ci fa sentire il resto della tela come la nostra densa esistenza.
Possiamo ignorare o vedere altre dimensioni senza che esse perdano nulla della loro essenza. Esistono come noi esistiamo, possono aprirsi in spazi più ampi o rimanere in luce e non darci nulla di più che un’impronta.
Ricorrente in molte tele di Davanzo è l’altro motivo di cui si parlava prima: il recupero affettuoso di frammenti, datoci in una sorta di provocazione materica dove le materie, appunto, impongono la loro creatività autonoma, la loro capacità intrinseca di scandire il discorso.
Lontano da propositi di insegnamento legati alla pur importante civiltà degli sprechi, l’artista si muove su un piano di amorevole memoria, cercando e ridando un’altra vita a ciò che pur ha avuto una sua importanza ma non cattura più la nostra attenzione quando abbiamo smesso di servircene. Non è facile accorgersi di quanto vive ai margini dell’indifferenza: intonaco secco, pagine staccate di vecchi quaderni, frammenti di Topolino. Davanzo sembra intrattenere con questi scarti un rapporto di riconoscimento e di intimità.
Essi costituiscono un’altra delle dimensioni possibili per aver accesso alla scoperta di orme, tracce cancellate. Piccoli incidenti che danno corpo ad un’idea, che ridefiniscono qual’è il margine della nostra libertà.
Stefania Canel