Messaggio in bottiglia

Marco Goldin

Scrivo questo messaggio per Walter Davanzo, incontrato per caso quando ho cominciato a frequentare luoghi che mai prima avevo notato. Niente di losco, per carità; semplicemente negozi dove è possibile acquistare ciò che ogni neonato, se ne fosse avvisato, potrebbe desiderare prima di conoscere una luce diver­sa dalla sua profonda foschia. Non avevo mai sospettato niente, e, del resto, la professiona­lità non dava a vedere nient’altro. Mia figlia cre­sceva, poco per volta, e per lei, con sua mam­ma, comperavo lo scivolo importato dal Canada e il seggiolino per viaggiare in auto­mobile; cose che tutti i genitori fanno, sempre uguali, con l’emozione e l’idea di esser loro i soli.

Ma una mattina della scorsa primavera, entran­do per ritirare un vestito destinato a Veronica, mi sorprese la richiesta di un catalogo di un pittore che, evidentemente, doveva essergli congeniale. Venni introdotto nel retrobottega, dove, sopra il tavolo di un ufficio lindo, fin trop­po pulito, stava appeso un quadro. “È mio”, disse. Ho poi assunto informazioni, e, in effetti, avrei anch’io dovuto conoscere il pittore Walter Davanzo; ma c’era il fatto, inequivocabile, che mi si era presentato sotto altre vesti, e che continuavo a confondere i due ruoli. Troppo l’amore per mia figlia per sostituire, d’improvvi­so, colui che soddisfaceva tutti i miei desideri in materia di regali; con un pittore. Banale per chi, continuamente, senza distinzioni, parla con loro o lavora con loro.

Ma un giorno dell’ultimo autunno, una mattina di festa, ho percorso, sotto la pioggia intermit­tente di un mese tra ottobre e novembre, la strada che dalla mia casa porta, vicino, in via dei Biscari, dove il pittore Walter Davanzo ha studio. Freddo, freddissimo, tanto da doversi chiedere come farà a restare lì dentro più di dieci minuti. Abbiamo, con Ketty e Veronica, guardato a lungo; il prima e l’oggi del suo lavo­ro; ascoltato idee, pensieri, speranze, delusio­ni; certo, anche progetti. Erano lì, sui muri bassi di una stanzetta in campagna, i suoi quadri. Come tracce di muschio bagnato in quello stesso mattino; terra grattata e lasciata ad asciugare. Spiegava, il pittore, del suo amore per Afro, Burri (dunque per la pittura Informale), e del suo respingere l’immagine scandita di una realtà presentata nella sua eccessiva evidenza. Non lo ascoltavo più; mi parevano, quelle, derivazioni evidenti, e mi concentravo, invece, sul profilo di una finestra; profilo di legno ormai tarlato, divorato dal tempo, inghiottito come dentro un buco fondo. Dietro il vetro sporco e antico c’era la campa­gna di Santa Bona, prima piatta e poi silenzio­sa e docile verso il Montello. Rivisti così i qua­dri, mi è parso che in quelli si fosse trasferito lo stesso senso di una materia crepitante; dove il timore è un sentimento d’attesa, e la pianura colorata non è mai una liscia, distesa pelle. Sempre s’increspa.

Scrivo questo messaggio per il pittore Walter Davanzo, e lo affido a una bottiglia sperando gli giunga in questa mattina in cui vecchi cam­minatori hanno toccato il punto del loro desi­derio.

Marco Goldin

Treviso, Epifania del 1993