Walter Davanzo
Isabella Panfido
E’ normale. Ad un certo punto della strada, dopo tanto correre e camminare ci si ferma e si guarda indietro per considerare il cammino percorso. Per darsi coraggio, per lo più, alla vista della distanza che ci sta alle spalle e per rifiatare un poco. Capita a tutti prima o poi (ma solo pochi hanno la percezione di quel che accade e ancora meno sanno metterla a frutto), di solito intorno a quella età che fa rima con “tanta” e durante quella sosta si passa in rivista agli ostacoli superati e a quelli che ci hanno costretto ad un aggiramento (non sempre la via più breve è la migliore). E’proprio allora, più che in qualsiasi altro momento del percorso, che a voler guardare, ci sfilano davanti agli occhi i volti di chi ci ha accompagnato, preceduto, superato, abbandonato. In quella sequenza imprevedibile che il cuore e la memoria comandano e che spesso ci sorprende. Ritornano davanti agli occhi immagini sepolte, gesti dimenticati per decenni, voci che risuonano con la stessa esatta tonalità di un tempo, piccoli fatti, oggetti, odori, ambienti, coincidenze di vite, racconti che stavano sepolti nella grana fina dell’argilla di cui è fatta la nostra memoria. Quello è il momento in cui si guarda anche a se stessi con occhi nuovi, o rinnovati, e ci si riconosce in ciascuna delle tessere di quel puzzle che siamo diventati: pezzi di altri, di chi ci ha amato e di chi, magari, ha solo attraversato per un attimo il nostro destino, tasselli di visi, corpi e anime che solo noi, ciascuno nella propria personalissima formula di reazione, ha rielaborato, trasformato, fatto lievitare, per produrre il magico, perché unico e irripetibile, impasto è la nostra storia individuale. Walter Davanzo, oggi, ferma lo sguardo (nella sua frenetica fantasia produttiva anche Walter sa fermarsi) dopo tanto correre di pennello e occhi su forme astratte, corpi, cani, stazioni e mette a fuoco, quello sguardo, il proprio “backstage”, l’impalcatura di immagini, eventi, persone che lo ha sorretto fio a qui. Appaiono allora illuminati dalla luce del suo guardare rapinoso, veloce, avido di vita, quei volti, quelle mani, quei corpi che sono parte fondante del suo passato e, dunque, del suo presente. Gente, una parola collettiva, generica, approssimativa potremmo supporre, massa indistinta, grumo di umanità, eppure dietro a una bandiera cos’ cumulativa e omogenizzante si cela una precisa intenzione, paradossale, di indagine, approfondimento, ansia di ricerca, ossessione di riconoscimento. Le tele sono grandissime, conosciamo il coraggio di Walter Davanzo nel misurarsi con la vastità della superficie come non ci fosse spazio abbastanza, respiro abbastanza per quella sua corsa di pennello, tele che sono teatro e sfondo per figure che ricompaiono dalla memoria estratte (volontariamente) o apparse (per una misteriosa volontà del ricordo passivo che ci assale alle spalle anche dolorosamente) dal pozzo profondissimo dell’infanzia. Il grande quadro della stanza dei sogni di Davanzo potrebbe rappresentare, l’origine, il cilindro magico da cui scaturiscono tutte le altre immagini: spesso ad una figura corrisponde un nome, un ruolo, una occupazione ma è una facilitazione catalogatrice che nulla aggiunge alla forza del gesto vitale di quel corpo che toma nel colore e nella materia pittorica, per noi che guardiamo è sufficiente quel gesto per farci prendere nella sintassi narrativa del racconto di Walter.
Isabella Panfido
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