Made in Holland
Fabio Girardello
Parlare dell’agire artistico di Walter Davanzo è, in apparenza, semplice e lieve.
Lieve è cogliere la familiarità dei segni e dei simboli che l’artista evoca e di cui fa reiterato uso, aprendo a ventaglio un’iconografia che, nella sua immediata limpidezza, pare non aver bisogno di decodificazione per la sua immediata contiguità rispetto all’archetipo di riferimento.
Esplicita è l’icona che Davanzo di volta in volta indaga serialmente. I suoi aeroplani sono variazioni quintessenziali dell’Aeroplano, strumento del trasporto nello spazio del desiderio. I suoi cagnolini, vagabondi o ingabbiati, fermati nel primo piano di certe tenere “polaroid pittoriche” o evocati ai margini di stanze misteriose, sintetizzano, nella loro semplificazione estrema, il Cane, ideale consorte dell’uomo, custode della Casa e delle sue intime memorie. L’angelo, che di volta in volta interagisce con gli attori reiterati (con la figura del Bimbo, o del Pinocchio, o del Cane, o con l’Aereo di cui si è detto), è chiaramente riconducibile all’iconologia dell’Arcangelo che tutti conosciamo, corredato com’è d’ali e spada e aureola. È indubbiamente Michele, l’Arcangelo che protegge, il guerriero che lotta e debella il Male; ma è anche Raffaele, l’Angelo biblico che guida il giovane Tobia nel corso del suo “romanzo di formazione”, rivelandosi come semplice coetaneo del protagonista.
La pittura di Davanzo, che peraltro non rinuncia mai alla propria vocazione narrativa, accentua il dato simbolico, portando in superficie la percezione preconscia e il significare più profondo delle cose.
Ne è prova, fra le molte, l’esercizio di straniamento a cui è sottoposta la Tazzina, elemento ricorrente, che trova luogo in spazi incongrui: accanto a un’azzurra figura d’aviatore che pare uscito dalle pagine di Saint-Exupéry; o sul piano pericolante di un allampanato tavolino-trespolo; o nel verde di un prato ideale, magari accanto all’Angelo e al Cane. La Tazza cessa la sua funzione di oggetto d’uso per diventare a pieno titolo personaggio dei teatrini pittorici di Davanzo. Coerentemente, le dimensioni dell’oggetto variano a seconda della necessità di enfatizzare la sua funzione nell’ordine del racconto. Gigantesca, la Tazza diviene contenitore ideale di oggetti amati: vi trovano ricovero il Cane e le gambe di una figura femminile che quasi si tuffa nel suo comodo interno come in una piscina, e di cui null’altro ci è dato sapere.
La Tazza è, allora, interamente trascritta nella sua dimensione simbolica: si fa – tout court – confortevole utero che contiene figure, sapori e memorie domestiche, così come il Cane è il custode dell’intimità e l’Angelo è l’Angelo Custode che i bambini usavano ricordare nella preghiera serale.
Si è detto della lievità dell’artista, della leggerezza con cui gioca con la dimensione simbolica e dell’immediatezza con cui comunica.
Eppure il progetto artistico di Davanzo non è riducibile a una pur aggiornata rivisitazione simbolista. È un progetto espressivo assai complesso.
Talora, ad esempio, Davanzo sembra abbandonare il canto dell’oggetto “privato” per indagare la sovraesposizione dell’oggetto “pubblico”. Ne è buona testimonianza la serie dei Mulini, che costituisce la più recente produzione pittorica e plastica. Essi sono effettivamente i notissimi mulini d’Olanda. Coraggiosamente, Davanzo propone un’icona che è divenuta stereotipo, standardizzata e abusata al punto di potersi dire frusta (il Mulino è l’Olanda da cartolina almeno quanto la Tour Eiffel è la cartolina di Parigi). L’archetipo, qui, pare obliterarsi nel luogo comune.
Se letta superficialmente, la riproposizione seriale di un segno mediatico potrebbe far supporre una rivisitazione delle modalità della Pop Art. In realtà, nella poetica pop, la monumentalizzazione dell’oggetto più vieto, più mediaticamente consunto, ha una ragione polemica: la rappresentazione pop è dissacrante, distanziante, anticonsumistica. La poetica pop denuncia e sancisce la definitiva perdita dell’aura dell’oggetto che la riproduzione in serie ha reso “pura merce”, così come “pura merce” è divenuta la stessa rappresentazione artistica, che nega al rappresentare e al rappresentato quel salvifico salto sublimante nell’irripetibilità che, tradizionalmente, l’arte rivendica come proprio nel trasfigurare il dato desunto dal sensibile.
In realtà, Davanzo procede in senso esattamente opposto. Non è casuale, infatti, che i più recenti lavori, inerenti ad una personalissima “percezione dell’Olanda”, siano frutto di una attenta ricerca in loco, grazie al quale Davanzo recupera, accanto all’immagine per antonomasia olandese del Mulino, altri oggetti, altrettanto significativi ma assai meno usurati: ne è prova l’insistita citazione delle confezioni di “Karnemelk zeep”, un sapone al latte che, in un recente passato, è stato un popolare prodotto per l’infanzia , paragonabile alla nostrana Farina Lattea Mellin o al Borotalco Roberts. Anche questi sono stati oggetto di consumo di massa; oggi, tuttavia, per il loro essere obsoleti e “superati”, questi prodotti sono stati sottratti alla loro primaria destinazione; hanno cessato di essere funzionali al mercato per diventare funzionali alla memoria e all’elaborazione affettiva.
È proprio questa dimensione affettiva che Davanzo recupera sempre, ritenendola irrinunciabile.
Si potrebbe dire che, anche in questo caso, l’artista abbia inserito l’antico sapone dei bimbi olandesi nell’utero ospitale dell’ubiqua Tazzina, buffa teca dei ricordi, ironico reliquiario.
L’arte di Walter Davanzo è arte della Nostalgia.
Riconoscere la preminenza di questa caratteristica permette di comprendere meglio la pratica espressiva dell’artista, che ha intensamente meditato su questo.
Com’è noto, la Nostalgia è il “dolore del ritorno”.
La Nostalgia che prova Davanzo è, evidentemente, desiderio di tornare in quella dimensione di stuporosa indistinzione che si è soliti identificare con l’Infanzia.
Come ha sottolineato Diego Collovini (“Walter Davanzo, Volare con il cuore 2001-2004”), in quanto uomo radicalmente nostalgico, Walter Davanzo non si abbandona al facile lenimento del sentimentalismo; lo combatte, invece, con una buona dose di lunare ironia. E tuttavia egli è ben cosciente di vivere in un luogo che è irreversibilmente lontano e in un tempo che è il tempo del troppo tardi. Sa perfettamente che il Ritorno è impraticabile e che il dolore derivato da questa consapevolezza genererà per sempre inquietudine.
L’inquietudine trova precisa manifestazione nella grammatica pittorica di Davanzo, in cui vi è una marcata tensione “espressionista”. L’uso del colore, apparentemente squillante e gioioso, ma in realtà violento e dissonante, lo attesta: in “Aereo”, tela del 2003, una grande mano luttuosamente lilla tenta invano di afferrare la coda di un aereo color cenere che precipita verso una distesa blu, trasparente ma indifferente; in “Figure”, opera del 2004, un bimbo ricciuto, posto ai piedi di un tavolo ciclopico, regge con una mano un aeroplano giocattolo rosso incandescente.
Va sottolineato, comunque, che questa tensione neo-espressionista non genera né sbrigative citazioni né tardivi scolasticismi.
Lo stile di Davanzo deriva semmai da una sintesi che attesta una sedimentata coscienza dell’espressione contemporanea. In esso si ritrova la lezione della Transavanguardia e l’eco del fauvismo, l’impeto comunicativo del graffitismo e le suggestioni derivate dallo studio di Bacon ma anche dalla conoscenza diretta delle espressioni “etniche” dell’Africa mediterranea.
Non va taciuto, poi, un esercizio di stile che ha impegnato l’artista alla fine degli Anni Novanta, e che lo ha portato ad abbandonare momentaneamente la figurazione, ottenendo esiti quasi spazialisti, in cui affiorano frammenti di collage e cascami di parole.
Quest’esperienza non è stata una semplice parentesi: la parola, elemento grafico ora preminente ora contraddetto da cancellazioni vistosamente “gestuali”, riappare nelle tele che compongono l’odierno omaggio di Davanzo all’Olanda. Considerando il contesto non stupisce che, in questo caso, il linguaggio “evocato” sia l’olandese. Colpisce, semmai, che anche nella precedente serie “astratta” prevalgano parole straniere e talvolta affiorino i segni di un incomprensibile alfabeto.
Personalmente non credo che questi elementi si possano sottovalutare. Nel mettere in gioco grafemi e segni “stranieri”, semicancellati o non ancora decifrabili, Davanzo evidenzia la necessità di dare immagine e quasi ricreare un accadimento fondamentale: l’affiorare del linguaggio articolato.
Conoscendo la curiosità di Davanzo per le grandi tematiche filosofiche, non ritengo forzato ritenere che questo gioco sulla natività del linguaggio altro non sia che un livello differente di indagine rispetto al tema centrale della Nostalgia, che dal ricordo dello stato infantile assume struggimento e nutrimento.
In altri termini, riattivando il rito dell’emersione della parola, Davanzo intende riproporre, in termini squisitamente concettuali, la questione dell’Infanzia e della sua fine.
Se “in-fanzia” è, alla lettera, la fase in cui l’essere umano “non ha parola”, l’emergere di un’articolazione del linguaggio, di cui l’uomo nasce sprovvisto, determina la fuoriuscita da una fase primigenia, senza parole. Si tratta di una sorta di seconda nascita, della fuoriuscita da quella già ricordata indistinzione che l’autore legge nella sua dimensione di “miracolo”, ma anche nel suo essere, comunque, passaggio traumatico, lacerazione immedicabile; atto decisivo di separazione dalla dimensione protetta e accogliente che costituisce il primo mondo di cui abbiamo esile memoria: il mondo delle trottole, degli angeli, dei giocattoli animati, delle tazzine materne.
Mi accorgo, in conclusione, di aver evidenziato, dell’opera di Davanzo, gli aspetti meno solari, e per certi versi “perturbanti”. In realtà, credo che l’autore non tema le letture parziali: la sua espressione, infatti, sa dosare con perizia epifanie commoventi ed evidenze crudeli, veleni e contravveleni. Se le sue gabbie, le sue ombre, le sue figure fantasmatiche, le sue parole vanificate nell’imperversare delle pennellate ci turbano, per contro miriadi di frammenti di un mondo perduto, ancora miracolosamente operativi, ci fanno da amuleto, ci danno la forza di affrontare il mistero del “già accaduto” e del “non ancora”.