Walter Davanzo: Annus mirabilis
Eugenio Manzato
La scrittrice Geraldine Brooks vinse il prestigioso premio Alex Award nel 2002 con il romanzo Annus mirabilis, che descrive i lunghi drammatici giorni di un anno di peste in un villaggio inglese tra il 1665 e il 1666, l’anno dell’epidemia nota come la grande peste di Londra.
Anche Walter Davanzo ha vissuto un “annus mirabilis” fra il 2020 e il 2021, il terribile primo anno di Covid 19, e ne dà testimonianza attraverso un intenso ciclo pittorico scandito per immagini, quasi capitoli di un visionario romanzo: prigioniero nella sua prodigiosa casa-studio – articolata come un sorprendente labirinto – ha dipinto forsennatamente per i lunghi mesi della pandemia dando forma a paure ed angosce, ma anche a riflessioni e fantasie, laddove drammaticamente efficace si è rivelato il suo personale e inconfondibile stile pittorico primitivo ed espressionista.
La sua narrazione per immagini si dipana in una sorta di laica via crucis, ispirata – talora deliberatamente talvolta inconsciamente – a opere di grandi artisti del passato: ad esempio la figura di San Sebastiano, che compare ieratica e insistentemente ripetuta in un gruppo di tele, rinvia a famosi esemplari della pittura del Rinascimento, da Antonello a Mantegna.
Il santo, in tempi in cui di peste si moriva come mosche, veniva invocato come “antidoto” prima di essere contagiati: è probabile che la figura di Sebastiano, dal corpo giovane e nudo irto di frecce, si sia sovrapposta al culto di Apollo, spesso rappresentato nudo e armato di frecce, come avviene nell’Iliade al cui inizio troviamo il dio adirato che provoca la peste nel campo Acheo scagliando i suoi dardi.
Il Sebastiano di Davanzo è trafitto da frecce che nel sintetico – quasi infantile – disegno rinviano ad archetipi primitivi e tribali: e tutta una sezione della mostra esibisce simboli iniziatici e misteriosi che il nostro artista riferisce a repertori di disegni utilizzati da adepti a sette segrete per tatuaggi di reciproco riconoscimento.
Anche una immagine universalmente iconica come la leonardesca Gioconda entra nel girone pandemico, presentandosi con il volto celato in parte dalla odiosamata mascherina di varie fogge e colori, come è toccato a tutti di dover sperimentare in quei mesi dolorosi.
E le tragiche immagini delle bare in convogli di camionette militari sembrano evocate, pur trasfigurate, nelle sepolture dei nudi crudamente disegnati in avelli danteschi: ricordano i paurosi Trionfi della morte che rendevano le nostre città – secondo gli alti versi del Foscolo – “meste d’effigiati scheletri”; strani angeli si chinano sui tumuli a prelevare le piccole anime delle figure defunte, quasi un presagio di eterna risurrezione.
E a portare ulteriore fiducia si affaccia, fra tragiche figure, il volto sereno e pacioso di Carmelo Zotti, il nostro grande artista da pochi anni scomparso, che Walter tiene in conto di maestro, riferimento per l’arte ma anche campione di umanità.
Fremente vitalità sembra infondere la figura della Veritas – un altro riferimento all’antico: l’Amor sacro di Tiziano – che, nuda per il furto delle vesti da parte della menzognera Calunnia, si affaccia dal bordo del pozzo, promessa di erotici piaceri. E quanta trepida liricità, pur velata di malinconia, in quella ripetuta bimba impedita ad usar la sua piccola biciletta; e nei “fratellini” sotto la finestra chiusa a rimirare un uccellino – ahilui – anch’egli in gabbia. E incombe sempre il disadorno disegno della casa – casa-prigione – anche nelle moltiplicate variazioni del “déjeuner sur l’herbe”, tema caro alla pittura francese impressionista e qui evocato – nella declinazione ora di Monet ora di Renoir – come fuga dal chiuso delle stanze, voglia di aria campestre e di libertà, quasi un segnale di speranza : o così noi vogliamo leggere questi convegni all’aperto dove non mancano ironia e intellettuale divertimento – ah, quelle grandi nere orecchie di Topolino! – a ricordarci con Walter Davanzo gli sconfinati territori dell’arte e della poesia.
Post scriptum: la necessità aguzza l’ingegno, ci ricorda il proverbio. Terminate le tele vergini e impedito dalla clausura ad acquistarne di nuove Walter Davanzo ha riciclato tele usate, dipingendo i nuovi soggetti sopra composizioni precedenti, talché ne risultano trasparenze e sovrapposizioni. E ne ha tratto un saggio insegnamento: che non val la pena di accumulare tele su tele, dipinti su dipinti, lasciandone ai posteri l’onere del collocamento. Con il rischio, oltretutto, – ma non sarà così di certo per lui – di finire in una discarica.
Quinto di Treviso, 25 aprile 2023