A proposito di Walter Davanzo

Antonio Dal Muto

Un protagonista che irrompe da un mondo diverso. Un passato da fotografo, un’arte che flirta col descrittivismo impressionista di Toulouse-Lautrec e con l’espressionismo tedesco. Con personalità.

CESENA – Nel panorama della pittura fortemente localizzata, ci si abitua sempre più al sentire, al riecheggiare dei “soliti nomi” e nei confronti dei quali, le loro iniziative, se non ci si pone con un precedente attimo di riflessione, rischiano di passare per il solito “deja vù”, sminuendo in ultimo le loro opere appassionate. Se questo è vero in parte e per alcuni autori, non lo è per coloro che sono in grado di presentarsi “sulla piazza” con ritmi di creatività credibili per poter accennare ad un minimo di ricerca. “Ricerca”, già, cosa è se non la linfa vitale di cui dovrebbe abbeverarsi ogni artista, scultore o pittore o scrittore che sia? Il “Deja vù” è colpa anche dell’artista, di quello pigro, che non ha più il coraggio di staccarsi da vecchi clichè espressivi perché di sicuro percorso attuativo. Ma quando in questo statico panorama irrompono protagonisti che vengono da mondi diversi, mondi creativi e concettuali diversi, allora, all’occhio di chi ama l’Arte, si apre una finestra nuova, inaspettata.  È il caso di Walter Davanzo, artista trevigiano, dal passato di fotografo, e che fa la spola con Berlino e con qualche altra capitale europea, come Madrid in cui sta esponendo. Grazie alla Neonata Galleria SIPAM – in viale Carducci 23 Cesena – abbiamo una finestra in più per godere di diversi paesaggi artistici e respirare, consentitemelo, “aria nuova”. L’arte di Davanzo, che si pone a cavallo dell’espressionismo tedesco, asciutto e sintetico e il descrittivismo impressionista di Toulouse-Lautrec, mostra abilmente come i due linguaggi, filtrati da una personalità romantica mossa, forse, da una velatura di tristezza esistenziale che richiama quella “nostalgia” del poeta sovietico Gortciakov e che vorrebbe sposare, ammorbidendola, la prosa dissacrante di un Kundera, possano divenire potentemente espressivi secondo una formula nuova. Nella mostra, il pensiero dell’artista rincorre, come frame fotografici, le immagini di una Berlino, una città che, perso da tempo il suo fascino austro-ungarico; conosciuto lo scandalo della divisione culturale e antropologica, tenta, nella mente, ma sicuramente più nel cuore, di ricompattare la propria immagine attorno al suo simbolo, la Porta di Brandemburgo, punto di passaggio dalla fase nostalgica ad una più razionale. Questo sforzo di “ricostruzione” di “baukunst”, basato sul razionalismo, è presente nelle opere dell’artista, strutturate da una attenta impostazione compositiva ed elaborativa delle stesse anche attraverso l’uso di resine per sottolineare un contrasto concettuale più che pittorico. Opere che solo apparentemente sembrano rifarsi ad un modus operandi casuale. Potremmo usare anche la chiave di lettura del frame fotografico, vista la pregressa esperienza dell’artista, ma questa visione ridurrebbe sostanzialmente il processo creativo di un artista che, sebbene si lasci guidare dall’osservazione, non dimentica che il percorso, attraverso le strade di una città ormai cosmopolita, vuole essere anche come il taccuino di viaggio di un attento viaggiatore, caratterizzato sì da schizzi e da accenni descrittivi, ma che sa anche lasciarsi vincere e trasportare dalle sensazioni e dalle emozioni di una contemplazione del vissuto quotidiano, berlinese in questo caso, e non solo dalle annotazioni.
La mostra rimarrà aperta fino al 14 marzo ed è visibile solo dal Venerdì alla Domenica.

Antonio Dal Muto

 

VOCE DI ROMAGNA
24 febbraio 2010